La casa in collina - brano
La casa in collina è un romanzo , scritto tra il 1947 e il 1948 e pubblicato nel 1949 insieme a Il carcere nel volume Prima che il gallo canti a Torino dalla casa editrice Einaudi.
“Se Cate esce fuori, — pensai, — tutto può dirmi,
per vendicarsi”.
Fui sul punto di andarmene, tornare nei boschi. Sperai che Cate non ci fosse,
che fosse
rimasta a Torino. Ma un ragazzetto girò l'angolo correndo, e si fermò.
Mi aveva visto.
— C'è nessuno? — gli dissi.
Mi guardava esitante. Era un bianco ragazzo, vestito alla marinara, quasi
comico in quello
scialbo di luna. La prima sera non l'avevo notato.
Andò alla porta e chiamò dentro. Disse: — Mamma —.
Uscí Cate con un piatto di bucce. In
quel momento piombò Belbo di carriera, rotolandosi e schizzando nell'ombra.
Il ragazzo si strinse
alle gonne di Cate, impaurito.
— Scemo, — gli disse Cate, — non è niente.
— Siete ancor vivi? — dissi a Cate.
Lei s'era mossa verso la griglia per buttare le bucce. Si fermò a
mezza strada. Girò la testa
— era piú alta di un tempo — riconobbi il sorriso beffardo
— Prende in giro? — mi disse. — Viene
apposta per prendere in giro?
— Ieri notte, — dissi. — Non vi ho sentiti cantare e credevo
che fosse rimasta a Torino.
— Dino, — disse al ragazzo. Gettò le bucce e lo mandò
in casa col piatto.
Quando fu sola, non rideva piú. Disse: — Perché non
vai con gli altri?
— È tuo figlio? — le dissi.
Mi guardò senza aprir bocca.
— Ti sei sposata?
Scosse il capo con forza — riconobbi anche questa — e disse
— A te cosa importa?
— È un bel ragazzo, ben tenuto, — le dissi.
— Lo accompagno a Torino. Va a scuola, — disse lei, —
torniamo su prima di notte.
Sotto la luna la vedevo bene. Era la stessa ma sembrava un'altra. Parlava
sicura di sé, mi
parve ieri che avevo portata a braccetto. Era vestita di una gonna corta,
da campagna.
— Tu non canti? — le dissi.
Di nuovo quel sorriso duro, di nuovo quel gesto del capo. — Sei venuto
a sentirci cantare?
Perché non torni al tuo caffè?
— Sciocca, — le dissi col sorriso che una volta non avevo. —
Ancora ci pensi a quei tempi?
Uscí di nuovo in cortile il ragazzo, e Belbo prese ad abbaiare. —
Qui, Belbo, — gridai. Dino
passò, corse dietro alla casa.
— Tu non lo credi, — dissi a Cate, — ma la mia sola compagnia
è questo cane.
— Non è tuo, — disse lei.
Allora le chiesi scherzando se di me sapeva proprio ogni cosa. — Io
di te non so niente, —
le dissi. — Che vita hai fatto, come vivi adesso. Lo sai che Gallo
è morto in Sardegna?
Cate mi disse: — Non è vero, — e restò male. Le
raccontai com'era andata, e quasi
piangeva. — È questa guerra, — disse poi, — questo
schifo —. Non era piú lei. Guardava a terra,
con la fronte aggrottata.
— E tu cos'hai fatto? — le dissi, — sei poi stata commessa?
Di nuovo storse la bocca e ribatté se m'importava. Eravamo di fronte.
Le presi la mano. —
Non vuoi dir mi la vita che hai fatto?
Uscí una donna vecchia e tonda dicendo: — Chi c'è? —
Cate le disse ch'ero io, la vecchia
venne per discorrere; in quel momento la luna andò sotto del tutto.
— Dino è andato con gli altri, — disse Cate.
— Perché non gli cambi la marinara, — disse la vecchia.
— Non sai che l'erba sporca?
Cate disse qualcosa; io parlai della luna. C'incamminammo insieme verso
il prato. Avevano
smesso di cantare e ridevano. Nel breve tragitto imparai che la vecchia
era nonna di Cate, che quella
casa era un'osteria, le Fontane, ma con la guerra non ci passava piú
nessuno. — Se questa guerra
non finisce, — diceva la vecchia, — tuo nonno vende e si va
tutti sotto i ponti.
Dietro la casa erano in pochi stavolta: Fonso, un altro, due ragazze. Mangiavano
mele sotto
un albero. Le staccavano dai rami bassi. Mangiavano e ridevano. Dino era
fermo sull'orlo del prato,
li guardava.
Cate andò avanti e gli parlò. Io restai con la vecchia nell'ombra
della casa.
— C'era piú gente l'altra notte, — dissi. — Sono
restati a Torino?
La vecchia disse: — Non tutti abbiamo l'automobile. C'è chi
lavora fino a notte. I tram non
vanno —. Poi mi guardò e abbassò la voce. — Chi
comanda è gentaglia, — borbottò. — Gentaglia
nera. Non ci pensano mica. In che mani ci hanno messo.
Salutai Fonso, a distanza. Mi aveva gridato qualcosa agitando la mano. Gridavano
tra loro,
tirandosi mele e correndo. Cate tornò verso di noi.
Dalla casa chiamarono. S'era aperta una porta buia e qualcuno diceva: —
Fonso, è ora.
Allora tutti, le ragazze, i giovanotti, il bambino, ci corsero addosso,
passarono, sparirono.
La vecchia sospirò. — Mah, — disse muovendosi. —
Anche quelli. Se si mettessero
d'accordo. Tanto tra loro non si mangiano . Chi va di mezzo siamo noi.
Restai solo con Cate. — Non vieni a sentire la radio? — mi disse.
Fece un passo con me, poi si fermò.
— Non sei mica fascista? — mi disse.
Era seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai. — Lo siamo tutti,
cara Cate, — dissi piano. —
Se non lo fossimo dovremmo rivoltarci, tirare le bombe, rischiare la pelle.
Chi lascia fare e
s'accontenta, è già un fascista.
— Non è vero, — mi disse, — si aspetta il momento.
Bisogna che finisca la guerra.
Era tutta indignata. Le tenevo la mano.
— Una volta, — le dissi ridendo, — non le sapevi queste
cose.
— Tu non fai niente? Cosa fanno i tuoi amici?
Allora le dissi che gli amici non li vedevo piú da un pezzo. Chi
s'era sposato, chi trasferito
chi sa dove. — Ti ricordi Martino? si è sposato in un bar.
Ridemmo insieme di Martino. — Succede a tutti, continuai. —
Si passano insieme dei mesi,
degli anni, poi succede. Si perde un appuntamento, si cambia casa, e uno
che vedevi tutti i giorni
non sai nemmeno piú chi sia.
Cate mi disse ch'era colpa della guerra.
— C'è sempre stata questa guerra, — le dissi. —
Tutti un bel giorno siamo soli. Non è poi
cosí brutto —. Lei mi guardò di sotto in su. —
Ogni tanto si ritrova qualcuno.
— E che cosa t'importa? Tu non vuoi fare niente e vuoi star solo.
— Sí, — le dissi, — mi piace stare solo.
Allora Cate mi raccontò di sé. Disse che aveva lavorato, ch'era
stata operaia, cameriera in
albergo, sorvegliante in colonia. Adesso andava tutti i giorni all'ospedale,
a fare servizio. La vecchia
casa di via Nizza era crollata e morti tutti, l'anno prima.
— Quella sera, — le dissi, — ti eri offesa, Cate?
Mi guardò con un mezzo sorriso, ambigua. Io, per puntiglio, piú
che altro, dissi: — Dunque?
Sei sposata, sí o no?
Scosse il capo adagio.
“C'è stato qualcuno piú villano di me”, pensai
subito, e dissi: — È tuo figlio il ragazzo?
— E se fosse, — lei disse.
— Ti fa vergogna?
Alzò le spalle, come un tempo. Credevo ridesse. Invece disse a voce
rauca, piano: —
Corrado, lasciamola. Non ho voglia. Posso ancora chiamarti Corrado?
In quel momento fui tranquillo. Capii che Cate non pensava a riprendermi,
capii che aveva
una sua vita e le bastava. Le dissi: — Scema. Puoi chiamarmi come
vuoi —. Mi venne Belbo
sottomano e lo presi alla nuca.
In quel momento dalla casa buia uscivano tutti, chiacchierando e vociando