La muta

Ai miei compagni di viaggio,
al dolore e all'estasi di ogni cambiamento.

Il mare sgrondava sugli scogli con poca convinzione.
Grappoli di ombrelloni gialli nascevano dalla roccia, celando al sole le nudità di qualche turista fuori tempo. Poco più su, un vecchio albergo appena restaurato offriva alle onde vernice fresca da scrostare. Al terzo piano un grande terrazzo coperto, trasparente di vetrate, occupava tutta la facciata. La finestra centrale era socchiusa, e dietro le tende sfiancate da una brezza insistente c'ero io.
Seguivo i gabbiani affondare nell'aria in planate placide e precise, e poi barcollare prima di raggiungere l'acqua, per un'improvvisa paura che scombinava la grazia del volo. Succederà così quando mi avvicinerò alla morte, pensavo, dopo averle galoppato incontro per anni ridendo.
Avrei voluto essere un'onda, e schiumare via per inerzia. Ma ogni nuovo giorno mi salutava qui, nelle due stanze affacciate al mare che avevo sognato a lungo.
Un mese di quella vista mi aveva già riempito gli occhi da scoppiare. Troppo mare per la mia anima slabbrata, presto ne avrebbe scardinato gli argini.
Le ombre di un temporale imminente caddero sui piedi nudi, salirono veloci sulle cosce fino all'ombelico, velarono il seno e la porcellana della tazzina di caffè.
Lo bevvi che era quasi freddo, e con un gesto secco chiusi fuori il mondo che gridava.

Scesi sul lungomare, trascinando il passo e il ricordo ovattato di alcune voci della mia vita. Il vento spazzava le palme, mentre scendeva dalle colline un'armata di nuvole dense e scure. Avrei mangiato pioggia.
Cercai con lo sguardo il vecchio pittore. Occupava la solita panchina, la maglia rossa e i pantaloni verde militare che avevo imparato a riconoscere da lontano. Le scarpe sfondate alludevano a migliaia di marciapiedi consumati in lungo e in largo.
Aveva occhi piccoli e uno sguardo aguzzo, che saliva a fiotti dal suo inferno personale. Qualche volta sputava, sempre molto vicino ai suoi piedi.
Il cavalletto di legno era ben piantato davanti a sé, con il tavolino sottostante pieno di tubetti di colore spremuti. Grovigli di rossi azzurri gialli si annodavano come serpenti, e seccavano all'aria.
Lavorava da giorni allo stesso quadro, ma ogni volta che passavo dietro di lui non notavo niente di diverso dal giorno precedente.
A destra, una collina appena accennata inglobava una casa bianca che sembrava avere solo le mura esterne, con le finestre come orbite vuote. La collina scendeva a sinistra in una piccola baia, e in quel verde indeciso s'infilava un mare uniforme. Il pittore si smarriva a lungo nel suo quadro, sceglieva i pennelli, pasticciava sulla tavolozza, aggrediva la tela.
Ma il disegno non cambiava mai.
Tolsi le scarpe e salii a cavalcioni sul muretto della fontana di fronte a lui. Io, il mio quaderno tutto fitto di parole, lui i suoi colori strizzati fino all'osso. Forse avevamo modi simili di strapazzare il cuore.
Spostò il corpo di lato e sollevò lo sguardo lasciandolo vagare; sapevo che quella distrazione era per me.
Ci salutammo con gli occhi, e fu un saluto impercettibile.
Tenni a bada una specie di dolore che mi frullò nel petto, perché era l'unica persona con cui avessi familiarità, quell'uomo imprigionato tra le palme e un quadro fantasma.
Non poteva saperlo, ma mi mettevo in posa per lui. Grata a quello strappo nella mia solitudine, cercavo le mie curve migliori, il sorriso più morbido, e glieli dedicavo con slancio.
Un piede abbandonato dentro l'acqua della fontana, muovevo le dita che si improvvisavano radici da cui succhiare nuova linfa. Immaginavo il corpo riempirsi d'acqua in cui i miei organi, finalmente alleggeriti, avrebbero potuto galleggiare. E difatti mi sentivo più leggera, ma sembrava che fosse lui, a togliermi peso. I suoi occhi mi calavano giù una sonda come un pennello, mi tingevano di verde, e mi assorbivano.
Pensai di fargli un regalo. Sulla mia borsa di stoffa se ne stava impiccata una spilla a forma di ramarro. Pensai che quell'animale gli si addicesse, forse per l'idea di calma apparente che immaginavo in entrambi.
Credevo, nel mio modo infantile di trovare legami tra le cose, che gli oggetti dovessero passare di mano in mano, testimoni di una staffetta lunga molte vite.
Quando mi alzai lo feci lentamente, spostando più volte la spilla in modo che lui potesse vederla. Poi mi avviai verso casa, facendo un giro largo e passando alle sue spalle.
Stessa collina, stesso scheletro di casa, stessi colori scarni. Mi sembrò che trattenesse il fiato. Io lo feci, e me ne andai.
Quella sera, accucciata sul divano, guardavo la pioggia lasciare sui vetri le sue bave di lumaca, e pensai a lui più volte, all'assurdità di un pittore che fingeva di dipingere. Di un uomo che fingeva di vivere. Di una donna che fingeva. Mi addormentai mentre ancora i miei pensieri componevano collane. Con tutte le maglie aperte, e gli anelli che sfilavano via.

La luce di un'alba ancora umida mi sorprese così, rattrappita e dolorante sul divano. Avevo pure un'ansia che si muoveva sottovoce, pensavo al pittore, all'uomo che avevo cercato d'amare incastrandomi nelle sue ferite, agli amori che non avevo trattenuto per paura che non volessero restare.
Mi vestii in fretta e feci le scale quasi di corsa, scrutando da lontano la nostra panchina.
Lui non c'era ancora, ma il cavalletto era già lì. La mia spilla era sparita; mentre pensavo a cosa avrei potuto dire al suo arrivo, aggirai la panchina, e cominciai a boccheggiare come un pesce.
Il dipinto della casa non c'era più.
In alto una scrittura molto indecisa diceva: “alla donna lucertola”.
Nel mezzo del quadro c'ero io, tratteggiata a matita. Accarezzavo con stupore le mie braccia nude, come il resto del corpo. Ai miei piedi giaceva un involucro che aveva le mie forme, un po' ripiegato e coperto di squame.
Mi portai le mani al volto, e una lacrima fiorì sulla mia pelle nuova.

dueanime