Dueanime
ci son giorni
Ci sono giorni che il silenzio è come braccia di
madre. Ho aperto la finestra, e l'aria fredda mi ha avvolto in un
respiro lieve. Ho mal di testa, oggi, e lo affogo nella mia consueta tazza
di caffelatte mattutina…
aehm…mattutina…ma che ore sono???
Argh!!!
(ecco perché il mio gatto sta miagolando come se fosse indemoniato!)
Buon giovedì
due
La farfalla
Un mio amico dice che la poesia che ho scritto ieri, "A.",
è un po' ermetica.
Mi ha chiesto se sono stata io, a guarire, o la farfalla.
Beh, penso sorridendo che siano accadute entrambe le cose.
A. è arrivata in comunità insieme a me. Insomma, l'abbiamo
aperta insieme. Che io fossi dall'altra parte ha poca importanza.
Lei era un bozzolo informe, con i capelli corti e gonfi sulla testa, vano
tentativo di proteggerla dagli urti della sua vita. Infagottata nei vestiti,
ci spiava da sotto la frangia con uno sguardo torvo e le labbra imbronciate.
Si muoveva con una lentezza esasperante, trascorreva la notte in rituali
interminabili, a volte se la faceva addosso e non parlava.
Quando la conobbi era in un Istituto di suore, ma non seppi mai se lei mi
vide veramente, in quell'occasione. I suoi occhi mi attraversarono,
troppo pieni di dolore per poter trattenere immagini nuove.
La prima volta che parlò, dopo qualche mese, disse: “Sì…No…per
me è uguale”, sintetizzando mirabilmente il suo stato d'animo.
Poi A. fiorì. Accadde all'improvviso, e fu un precipitare di
eventi. Purtroppo scelse un modo pittoresco per affermare la sua esistenza,
e molto faticoso per noi che le stavamo vicino. A. scappava. Scappava venti
volte al giorno, anche trenta. Scappava dalla porta, scappava dalla finestra
salendo sopra il lavandino, scappava scavalcando il muro di cinta. Vagava
smemore di sé, così sembrava almeno, finché non si
era stancata. Poi fermava una macchina e chiedeva di tornare a casa. Il
guaio è che parlava malissimo, ancora, e non sapeva il nostro indirizzo.
Qualcuno la portava dai Carabinieri, qualcuno in una struttura vicina alla
nostra che si occupa di handicap. Alla fine riuscivano a risalire a noi.
Allora decidemmo di dotarla di una specie di targhetta di riconoscimento,
come si fa con i cani. Non era per poco rispetto della nostra A., ma per
paura che potesse accaderle qualcosa. C' era il numero della comunità.
Questo ha reso tutto molto più facile, e più veloce, finché
non ha imparato a tornare da sola.
Poi A. contattò il dolore della sua esistenza, e cominciò
a ferirsi. Si tagliava i polsi, si spegneva le sigarette sulle mani, si
graffiava la faccia, urlava la sua rabbia a un mondo che finalmente l'ascoltava.
Dopo le crisi, cavalcioni su di lei stremate entrambe, o sedute in bagno
con il coltello ai miei piedi, o buttate sul suo letto tra le lenzuola aggrovigliate,
le parlavo del suo futuro.
Le spiegavo cos'era una crisalide, le dicevo che in quel luogo sarebbe
avvenuta la sua trasformazione, se lei l'avesse voluto, e che un giorno
avrebbe spiccato il volo.
Lei mi supplicava di non cambiare lavoro, di non andarmene prima di lei.
Io la rassicuravo, pensando che avevo bisogno della comunità, per
guarire anch'io, a mio modo, dalle mie ferite. Ma questo non glielo
dicevo.
Sono passati quasi 6 anni.
A. è una bellissima giovane donna, e mercoledì la dimetteremo.
Due giorni fa è uscita, ed è tornata in comunità con
un tatuaggio.
Una farfalla.
Mentre le osservavo la spalla, tentando di tenere a freno una commozione
violenta, mi ha detto:
“Hai visto? E' una farfalla storta. Un po' come me”.
Tra pochi giorni A. prenderà il suo cielo, portando
sulle sue ali le mie lacrime e la mia gioia.
E, forse, un pezzo della nostra reciproca guarigione.
A.
La farfalla
appena tatuata
si tuffa su
dalla spalla al cielo.
Dall'alto ombreggia a ventaglio
la tua pelle fitta di crateri
dove un tempo spegnevi sigarette.
A chi mi chiede
se sei guarita
non so rispondere.
Solo, ti guardo volare.
Un grazie speciale a chi mi ha chiesto di raccontare questa storia