Ritratti (I.)
Seduta dietro il vetro leggo distrattamente il giornale e sento i suoi
occhi su di me. Vista da qui, la stanza sembra un acquario. Strani pesci,
i matti. I. mi guarda da tempo, immobile. Sollevo lo sguardo e incontro
il suo, così storto, così indecifrabile. Provo a mettere su
un sorriso lieve, ma mi scoraggio quasi subito davanti alla sua faccia muta,
e penso che lei non avrebbe fatto neanche in tempo a rispondere, se avesse
voluto. I. è la donna più brutta che io abbia mai visto. Ha
gli occhi molto sporgenti, uno semichiuso, e la bocca contratta in una smorfia
che le solleva metà del labbro superiore. E' scura di capelli,
ha dei veri e propri baffi, si muove curvata in avanti guardandosi le scarpe.
Gira sempre con una borsetta piena di fogli di carta, che chiede continuamente
al personale. Ci scrive su qualcosa in gran segreto, e poi li infila in
borsa. Ha le mani come artigli, e le dita che curvano a scatti, piegate
dall'artrite. Ma il vero problema, con I., è quando parla.
Emette dei suoni gutturali, quasi privi di consonanti, fatti di “u”
ed “i” che si prolungano nei corridoi. Mi ricorda l'orco
della favola di Pollicino. Quando mi rivolge la parola annaspo tra le sue
vocali, le guardo le labbra, le chiedo di ripetere. E lei ripete, imperterrita,
il suo alfabeto personale e incomprensibile. Gli altri del gruppo, che lavorano
qui da tempo, hanno imparato a leggere alcune delle sue richieste e ridacchiano
con indulgenza di fronte ai miei sforzi. Mi hanno confidato che molte volte
nemmeno loro sanno cosa dice, ma annuiscono lo stesso, o le danno una pacca
sulle spalle. Io non ho voglia di fare finta di capirla.
Da un paio di giorni ci stiamo studiando intensamente, vado a salutarla
quando arrivo e quando finisco il mio turno. Ieri l'ho toccata per
la prima volta, carezzandole appena la schiena.
Lei si è avvicinata al vetro e mi ha lanciato addosso i suoi vocalizzi,
indicando qualcosa sopra l'armadietto. E'uno scatolone che contiene
dei fogli di carta. E' stato bello non doverle chiedere di ripetere.
Ho pensato che avesse fatto quel gesto con l'intento di aiutarmi,
mi è sembrata una gran cosa. Le ho consegnato un paio di fogli, trattenendoli
un po' in mano, finché lei non ha farfugliato una parola che
suonava come un “grazie”. Non era tanto per un fatto di educazione,
ma volevo sottolineare che era avvenuto uno scambio tra di noi. Così
ho sorriso, e lei mi ha risposto scoprendo una manciata di denti scuri.
Ecco, ho pensato, da questo momento io ed I. abbiamo una relazione.
Chiudo il giornale, la vedo avanzare verso di me. Allunga il dito verso
lo scatolone ed accompagna il movimento con una serie di “a”.
Vuole dire carta. Prendo due fogli, e prima di darglieli mi viene un'idea.
Su uno di essi scrivo il mio nome, a lettere grandi, in stampatello. “Barbara,
io mi chiamo così. Perché non ci scrivi il tuo nome, qua sotto?”
I. mi guarda, prende i fogli che le porgo, sembra decidere il da farsi dondolandosi
sui piedi. Scarabocchia un tracciato elettroencefalografico sotto al mio
nome, mi indica, e ride. Ride di gusto, con la bocca di sghimbescio, e le
ridono anche gli occhi, uno grande grande, l'altro semichiuso. Poi
mi confessa allegramente nel suo gergo: “Io non ti capisco”.