Sono venuta solo per parlare
La prima cosa che le venne in mente fu che quello era un
brutto segno.
La chiave si era incastrata nella serratura e mentre armeggiava per aprire
la porta sentì un rumore di passi alle sue spalle.
“Serve aiuto?” disse una voce maschile.
“Credo di sì” rispose lei e si voltò.
Si trovò di fronte un ragazzo di circa trent'anni, con un sorriso
largo ed un paio d'occhiali dalle lenti ambrate.
Le prese la chiave dalle mani e cominciò a muoverla delicatamente
nella serratura. In pochi secondi riuscì ad aprire la porta.
“Grazie” disse lei con un sorriso imbarazzato: “mi scusi,
la fretta…”. S'interruppe e lo osservò meglio.
Aveva un corpo solido, le gambe leggermente divaricate e le braccia un po'
scostate dai fianchi. La donna sembrò ripensarci e disse: “Senta,
lo so che le sembrerà una richiesta insolita”. Fece una pausa,
poi aggiunse: “Mi accompagnerebbe in casa, per favore?”
Il ragazzo si tolse gli occhiali con un'aria perplessa.
“La prego” rincarò lei, “solo un minuto. Questa
casa è chiusa da molto tempo”.
Il ragazzo accennò un mezzo sorriso impacciato.
”Va bene” disse poi schiarendosi la voce e la precedette nell'appartamento.
La casa era immersa nel buio, le serrande erano abbassate in tutte le stanze
e c'era un forte odore di chiuso.
“Sono tre anni che non torno” disse lei.
Si muoveva lentamente da una stanza all'altra, come se temesse di
svegliare qualcuno.
Il ragazzo la seguiva, camminando piano anche lui.
Le lunghe gambe della donna frusciavano sotto il vestito.
Non accese luci e non toccò niente, solo quando entrarono in cucina
sollevò per metà la serranda con un sospiro.
”E adesso è qui per restare?”, disse il ragazzo all'improvviso.
Lei lo guardò stupita.
“Restare…” disse, e poi: “no, non credo che potrei
restare qui. Sono venuta solo per parlare”.
“Con chi?” chiese il ragazzo.
“Già” rispose lei, assorta: “con chi”.
Il ragazzo attese per un po' in silenzio, con gli occhi abbassati
a guardarsi le mani.
Lei indugiava con lo sguardo sui mobili, le pareti, il soffitto, sopraffatta
dall'emozione.
“Forse ora dovrei andare” disse il ragazzo.
La donna non rispose. Spostò una sedia, ne disegnò il contorno
con le dita, andò verso il lavandino e di nuovo tornò vicino
alla finestra, incerta.
“Mi scusi”, disse infine lui, “ma davvero si è
fatto tardi. La donna sembrava lontanissima. “Allora arrivederci”.
“Certo” fece lei con voce atona, “arrivederci”.
Il ragazzo uscì camminando all'indietro per quasi tutto il
corridoio che collegava la cucina alla porta d'ingresso e se ne andò.
Lei si sedette di schianto sulla sedia più vicina, si piegò
in avanti e appoggiò la fronte sul tavolo. Il ripiano era liscio
e freddo. La donna vi appoggiò anche le mani, facendovi aderire i
palmi.
“Sono venuta solo per parlare”, disse.
Tre anni prima suo padre si era impiccato alle travi del soffitto, in cucina.
Era stata lei a trovarlo.
Non aveva mai visto quella corda in giro per casa, prima di allora. Doveva
averla comprata per l'occasione.
Ricordava ancora di non essere riuscita ad urlare, e la sensazione che aveva
provato nel vedere il corpo di suo padre a mezz'aria.
Suo padre non era mai stato un uomo leggero, né con sua madre né
con lei. Eppure, nonostante l'abito scuro che gli conferiva un'aria
grave, sembrava leggero, là in alto. Finalmente leggero e senza peso.
Quel giorno era stata fuori tutta la mattina per un lungo giro al mercato,
uno dei pochi che si sarebbe concessa nei lunghi mesi invernali. Aveva comprato
delle piante grasse. Una di quelle piante resisteva ancora, nel suo nuovo
appartamento, con le foglie carnose e gonfie d'acqua.
Era stata sempre lei ad avvertire sua madre. I vicini dovettero aiutarla
perché la donna, già vecchia, ebbe una crisi di pianto che
le parse interminabile.
Fu l'ultimo giorno che vissero in quella casa.
Nonostante non avesse acconsentito alla vendita, sua madre non chiese mai
di tornare nell'appartamento. Sembrava anzi che avesse cancellato
quella parte della loro vita.
Lei invece ci pensava spesso; in particolare pensava al silenzio con cui
suo padre se n'era andato. Per quanto non avessero mai parlato tanto,
non poteva perdonargli quell'uscita di scena senza nemmeno una parola.
Aveva delle cose da dirgli, sentiva confusamente che seduta in quella cucina
sarebbe riuscita ad esprimersi meglio, e che lui l'avrebbe ascoltata.
Disse di nuovo: “Sono venuta per parlare”.
Le scese una lacrima, ma senza convinzione. Soprattutto era il freddo che
la infastidiva.
Andò nella sua vecchia camera, e sfilò dal letto la coperta
gettandosela sulle spalle. Starnutì per la polvere annidata nella
lana. Indugiò qualche istante, cercando di riconoscere le sue cose
al buio. Era tutto immobile, fermo a tre anni prima.
Prese da una mensola un paio di libri, sentì sotto le dita il solletico
un po' ruvido di una ragnatela.
Si avvolse meglio nella coperta, stringendone i lembi sul seno e tornò
in cucina. Rimase in piedi a guardare le travi di legno massiccio. Le erano
sempre piaciute. Da ragazza pensava che quando si sarebbe comprata una casa,
l'avrebbe voluta con le travi a vista.
Da ragazza pensava molte cose.
Si soffermò a guardare i nodi del legno. Ce n'era uno molto
grande, con due piccoli cerchi scuri nella zona centrale. Si accorse che
sfuocando l'immagine il nodo somigliava ad una faccia deforme. Anche
questo era un passatempo della sua infanzia: il vecchio armadio dei genitori,
ad esempio, con le ante percorse di venature, aveva spesso ospitato volti
di mostri e diavoli creati dal legno e dalla sua fantasia.
Facendo scorrere lo sguardo vide che l'orologio a muro era fermo alle
17 e 23 di chissà quale giorno. Fuori stava già facendo buio.
Quanto tempo era passato da quando il ragazzo della chiave l'aveva
lasciata sola?
Avrebbe voluto fare in fretta, ma le parole non venivano, era sempre stato
così, con suo padre. Nemmeno la sua morte l'aveva liberata.
Si accostò ai fornelli a testa bassa e trascinando i piedi, come
sconfitta dai suoi pensieri.
Prese la caffettiera dal pensile in alto. I polpastrelli incontrarono il
metallo appiccicoso di grasso e polvere. Al piano di sopra qualcuno spostava
dei mobili