La Stagione della Fioritura

L'infermiere se n'era appena andato. Laura si alzò lentamente dalla sedia e raggiunse il letto. Sentì le lenzuola tese sotto i polpastrelli. Si sedette, aggiustò i cuscini dietro la schiena e guardò fuori dalla finestra.
Era il suo modo per uscire all'aperto, nei vialetti di ghiaia quasi deserti. Avrebbe voluto passeggiare. Ricordava vagamente, molti anni prima, le sue lunghe passeggiate per le vie del centro.
All'epoca, Laura era bella. Conobbe gente famosa perché sua madre faceva la sarta per quelli del teatro. Incontrò attori, registi, cantanti d'opera, e tutti le dicevano di quanto fosse bella.
Anche Matteo.
Si vedevano al cimitero degli ebrei, nella città vecchia. Era un posto tranquillo e immerso nel verde. Le lapidi erano circondate da un fogliame incolto e rigoglioso e dai fiori dei capperi selvatici.
Matteo raccoglieva per lei quei fiori bianchi e rosa, e glieli piantava nelle asole della camicia.
A ridosso del cimitero c'erano alcune case disabitate e sbrecciate dalla guerra. Laura guardò molti tramonti con la schiena incollata ai muri di mattoni e Matteo che le stava addosso.
Quando tornava a casa, suo padre la scrutava spiandone ogni gesto. Qualche volta l'aveva anche toccata, in passato, ma adesso Laura non glielo permetteva più.
Una sera la pioggia sorprese Laura e Matteo che erano ancora al cimitero. Entrarono in una delle case scavalcando cumuli di macerie.
Mentre Matteo si affannava a cercarla sotto i vestiti, Laura pensò che meritavano un posto migliore e glielo disse. Gli disse che voleva una casa con il giardino e che ci avrebbe piantato i capperi selvatici.
Matteo si era fermato e l'ascoltava immobile. Poi le fece una carezza incerta e abbassò gli occhi. Laura sentì freddo. Lo abbracciò.
Quella notte suo padre la toccò di nuovo, mentre Laura pensava a Matteo, che doveva portarla via da quella famiglia così storta. Il fratello di Laura si era gettato sotto un treno a sedici anni, ancora prima che lei nascesse, e la sorella più piccola giocava ad infilarsi nei loculi vuoti del cimitero, e parlava coi morti. Almeno lei al cimitero ci andava con Matteo. Sua madre faceva la sarta, e su sua madre non sapeva proprio dire altro.
A questo pensava Laura mentre suo padre la teneva per i capelli e la spingeva giù, e pensava che anche lei aveva nella sua bellezza come un germe di spavento e di malaria.
Germe che di fatto le fiorì negli occhi qualche giorno dopo, quando Matteo la lasciò.
Laura pensò che Matteo se ne andasse per via delle cose che le faceva suo padre. Piangeva e piangeva, implorandolo di tenerla con sé, gli giurava che sarebbe andata da suo padre e l'avrebbe ucciso.
Matteo cercava di divincolarsi e non capiva, le gridò che era pazza, poi la spinse via con forza e scappò nei campi.
Laura rimase a lungo accasciata sull'erba.
Mentre tornava a casa la sua bella schiena lunga s'incurvò sotto la luce inclemente della luna. Suo padre l'aspettava sulla soglia carico d'ira, perché era già buio da tempo, ma quando la vide non osò dire niente. Anche sua madre la vide, nascosta nella penombra dietro le persiane. Laura aveva gli occhi cerchiati e gonfi, guardava dritto davanti a sé.
Dentro agli occhi non c'era più nessuno.
Pochi giorni dopo suo padre morì cadendo dalle scale che conducevano in cantina. Così raccontarono Laura e sua madre alle forze dell'Ordine.
Quel pomeriggio Laura uscì con la testa piena di idee. Andavano così veloci, le sue idee, che lei se le guardava sfilare dentro, tentando debolmente di arrestarne qualcuna. Parlavano tutte di Matteo, dicevano che ora sarebbe andato tutto a posto.
Arrivò di corsa alla bottega di Matteo e rimase a lungo a guardare la porta, dall'altra parte della strada, mentre cercava di riordinare le parole. Vide entrare una donna.
Laura si avvicinò fino a schiacciare la faccia contro la vetrata della bottega, la polvere le pizzicava la gola. Nella penombra in fondo alla stanza, la donna era appoggiata al muro (era un muro di mattoni, profumato dai fiori selvatici) e Matteo le teneva le spalle, le baciava il collo ed il seno (le piantava i fiori nelle asole, dai petali usciva un veleno).
Laura si allontanò dal vetro e tornò dall'altra parte della strada.
Rimase lì finché non fece buio, finché non li vide uscire insieme e allontanarsi in un abbraccio che le allargò una crepa dalla bocca all'ombelico.
Passò la notte a disegnare fiori.
Li disegnò sui muri della sua stanza, sulle ante dell'armadio, sul pavimento.
Disegnò fiori sui suoi seni, i capezzoli come boccioli, fiori lungo le braccia, fiori a riempirle il ventre e sotto le piante dei piedi. Erano fiori scuri, con una bocca spalancata e nera in mezzo ai petali. Disegnò fiori insanguinati di rosso che le gocciolavano giù dalle gambe.
Poi si perse definitivamente in quel giardino e da allora non ha fatto più ritorno.
A volte qualcosa le passa negli occhi.
Lascia penzolare dal letto le gambe gonfie, si dondola e comincia ad impastare parole.
I medici non credono che Laura dica la verità, quando farfuglia di tutta quella gente famosa del teatro o della sua bellezza fuori dal comune, e Laura lo sente, che non le credono. Allora si alza dal letto con il suo sedere enorme, pesta i piedi, urla e tira pugni alle pareti.
Mentre grida le cola la saliva sul mento, sente i medici che l'afferrano per le braccia e gridano anche loro.
La portano di peso davanti allo specchio, hanno scoperto che le piace.
Nello specchio c'è una donna che la guarda, il seno grosso appoggiato sulla pancia, i capelli grigi sciolti sulle spalle e una trama di rughe fitte intorno agli occhi.
La donna ha le mani sporche d'inchiostro colorato, dipinte di strani disegni. Sembrerebbero fiori.
Laura guarda le mani di questa donna, tira dentro la saliva e le sorride.

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