Non tocco carne da due anni
“A metà della via troverai una scalinata sulla destra”,
hai scritto. “Il mio portone è al numero 34”.
Gli scalini sono bianchi e irregolari, si arrampicano verso la città
alta sotto la calura. Mentre salgo ho già individuato la pianta di
oleandro, “ce n'è soltanto una”, hai scritto, “di
fianco al portone”.
Seduta sulla panchina di fronte all'ingresso c'è una
donna con una grande busta della spesa che sbuffa e si asciuga il sudore
con un fazzoletto.
“Oggi non si respira”, dice.
“Già”, rispondo io e le sorrido.
Mi chino per sollevare il vaso; le chiavi sono lì, come d'accordo.
Il portone di casa tua è di quelli di una volta, di legno scuro e
con due battenti in ottone. Il mio ritmo cardiaco è accelerato.
Appena entro nell'androne mi investe un odore di umido e muffa. La
stanza è in penombra, illuminata nella parete in fondo da un'
apertura ovale, in alto, e da una porta a vetri che immette in un cortile.
Non è come me l'avevi descritto. Parlavi di questa stanza ampia
e luminosa, appena verdastra per la luce di un rosone che dava su un giardino.
Ma è piuttosto buio, invece, il rosone non è che un buco senza
pretese e il giardino, di cui posso vedere il perimetro, è un quadrato
pieno di erbacce.
Salgo le scale.
“Secondo piano, non troverai il nome sul campanello”, hai scritto.
Mi fermo davanti alla porta.
Percorro a memoria la descrizione del tuo appartamento. L'ingresso
con i quadri di Klimt, la specchiera, le quattro porte che conducono alle
altre stanze.
La cucina con i gerani sul davanzale, il soggiorno con il divano ad angolo,
le tende di organza a doppio velo, le foto sulla mensola del camino. E ancora
il bagno con la vasca quadrata, tuo irrinunciabile vezzo, hai scritto proprio
così, e la camera da letto con le cartine geografiche dei tuoi viaggi
che tappezzano le pareti.
Apro la porta.
Dei quadri e dello specchio non c'è traccia. Le uniche cose
appese sono un calendario con la pubblicità di una banca e una maschera
di porcellana, di quelle che si possono acquistare nei negozietti per i
turisti.
Entro nella prima stanza. La cucina è in disordine, il davanzale
vuoto.
Perlustro in fretta il resto della casa. Niente è come tu me l'hai
descritto.
In camera da letto c'è un portafotografie, l'unico che
ho trovato. La foto ritrae qualcuno con i capelli corti, di fianco ad una
fontana.
Non sei tu.
Mi siedo di peso sul letto. La foto non è la tua, e nemmeno ti somiglia.
Questa casa non ti somiglia.
Mi assale d'un tratto il ricordo delle passeggiate nei boschi con
mio padre, quando tentava di insegnarmi a riconoscere le impronte degli
animali. Mi indicava con fervore minuscoli segni sul terreno, parlando di
differenze a me invisibili.
Ma qui gli indizi sono tutti sbagliati.
Non ho bisogno di altre prove della tua inesistenza, solo vorrei scoprire
se c'è qualcosa di vero, anche per caso. Vago per le stanze,
torno in cucina, apro lo sportello del frigorifero con una fitta d'ansia.
Un piatto con due fettine, un pezzo di formaggio, pancetta affumicata a
cubetti, pomodori. Nemmeno la dieta vegetariana è vera, “non
tocco carne da due anni”, hai scritto.
Ricordo molto bene quella lettera un po' delirante in cui mi spiegavi
che non ti fidi dei carnivori perché sono bugiardi.
Rido forte, il suono della mia risata mi riempie d'inquietudine.
La fitta d'ansia adesso è un rullo di tamburi, non ho più
voglia d'incontrarti, né di chiedere spiegazioni, sarebbe penoso.
Mi sento in un film molto ridicolo.
Torno all'ingresso, apro la porta di casa. Dalle scale non proviene
alcun rumore.
Una corsa giù per i gradini, spalanco il portone e sono fuori. Penso
alle chiavi, rimaste da qualche parte nell'appartamento.
Sulla scalinata non c'è anima viva, la signora della spesa
se n'è andata, tu non arrivi. Il sole è ancora caldo,
implacabile sui ciuffi di parietaria, sul tuo oleandro, su tutto questo
bianco che fa quasi male agli occhi.